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Dossier Sanità - ATS - RIFLESSIONI SUL CONSUNTIVO FINANZIARIO 

CONVENTO (pubblico) POVERO, FRATI BENESTANTI

  30/08/2021

Di Redazione

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L'incipit di questa analisi/riflessione prende spunto dall'esternazione sul quotidiano provinciale di qualche giorno fa della direttrice del dipartimento amministrativo dell'ATS Valpadana, la cui finalizzazione ci sfugge. 

In proposito non possiamo sfuggire all'impulso di interrogarci e di interrogare, da un lato, circa l'effettiva convenienza della proliferazione di apparati dirigenziali, nel corso degli anni, sviluppati secondo un'inarrestabile bulimia (in particolare, gli apparati relazionali/informativi) e, dall'altro, circa la motivazione di un report sulle dinamiche finanziarie di un'azienda di servizi chiamata a fronteggiare una temperie eccezionalmente impegnativa. 

Annuncia la (presumiamo) dottoressa Biancifiori un consuntivo apocalittico, reso tale dal combinato di maggiori spese e di minori entrate. 

Come è noto anche (o soprattutto) i conti della pubblica amministrazione, applicata ai servizi della salute, devono quadrare. Ha inciso in particolare la voce dei tamponi 10 mln (per il vero dispensati col contagocce in regime di gratuità). Ma a disassare l'equilibrio tra entrate ed uscite sarebbe stata la somma (se abbiamo capito bene 58 mln) delle minori entrate da prestazioni sanitarie e ambulatoriali e ricoveri. Che, dice la dirigente amministrativa, la Regione non riconoscerà, rendendo molto precario l'assestamento di bilancio. 

Per fortuna, sia consentita una digressione non esattamente assistita da fair play, almeno una parte dei camici è stata offerta gratuitamente da un'azienda di famiglia. 

Messa così, la situazione non appare entusiasmante. Sfugge, come si ripete, la finalità dell'annuncio. Rendere edotti e consapevoli gli amministratori, i corpi sociali, i cittadini utenti? Un preannuncio di scesa in campo della Regione per ripianare e garantire continuità all'erogazione dei servizi? Ovvero di un contenimento delle prestazioni per ristorare le esauste finanze? Sia quel che sia e, comunque, dato atto della scaturigine principale di questo sbilanciamento, non sarebbe peregrino avviare una riflessione sugli esiti dell'”aziendalizzazione”, anche alla luce del pessimo livello prestazionale delle strutture gestionali. Cui sono stati affidati i servizi ospedalieri e sanitari. 

Gioverà sicuramente alla capacità percettiva del lettori in avanti cogli anni ed abituati alla nomenclatura identificativa delle strutture operanti nel campo della salute, precisare, sia pure all'ingrosso che per ATS ha da intendersi l'emanazione sul territorio del modello aziendalizzato della Sanità lombarda, mentre (con una S aggiuntiva) per ASST ha da intendersi il braccio aziendalizzato operativo officiato della gestione ospedaliera (in par condicio con la sanità capitalista) e, paradossalmente se si pensa alla netta distinzione all'origine della riforma sanitaria tra strutture di prevenzione e di cura. 

Il percorso della spesa sanitaria trae origine dalla postazione finanziaria regionale (scaricata dalle devoluzioni dello Stato), viene caricato alle ATS, che costituiscono il motore distributivo che alimenta il fabbisogno degli agenti operativi (gli ex presìdi ospedalieri) che operano in una sorta di modello convenzionale. 

In un sistema polarizzato e del tutto sterilizzato dal punto di vista di qualsiasi “contaminazione” (di partecipazione amministrativa, di controllo o semplicemente di consultazione dei profili gestionali) l'outing della dottoressa Biancifiore dovrebbe essere percepito per quello che è nella sostanza: il preannuncio di “lacrime e sangue” nel prosieguo della gestione finanziaria, il cui interfaccia della gestione d'istituto non potrà non avere in pancia un ridimensionamento dei servizi. 

A dire il vero la scure aveva già funzionato per effetto di quella sorta di commissariamento suggerito od imposto sia dalla precauzionalità in capo al lockdown sia dalla polarizzazione delle risorse umane e dei reparti sulla priorità assoluta del trattamento della pandemia. 

Una scure, ça va sans dire, che ha imperversato su presidi territoriali come i nostri (flagellati dagli alti picchi di morbilità virale e gravati dall'accoglienza di una domanda di cura proveniente extra moenia); ma che ha risparmiato l'offerta della sanità privata, che ha continuato, mentre quella pubblica era fagocitata dall'impari contrasto con le acuzie, ad operare nella bambagia garantita da quella sorta di extraterritorialità, che era ed continua ad essere il modello della “libera scelta della cura” in capo prima alle politiche di Formigoni e poi (spudoratamente) alla riforma Maroni (scaturigine della definitiva controriforma). 

Il cui intento era manifestamente quello di verticalizzare il potere politico della sanità regionale e di polarizzare la filiera dei servizi (asfaltando completamente la prevenzione, ospedalizzando la cura, sopprimendo completamente la rete di prossimità all'utenza). 

La flessione dei picchi di morbilità epidemica (il plateau della curva) ha di poco modificato lo stato dell'arte di quello che è semplicemente lo stand by del servizio sanitario: reparti ospedalieri che, nonostante la flessione dei picchi, funzionano a scartamento ridotto ed hanno quasi completamente revocato “prestazioni sanitarie e ambulatoriali e ricoveri” (virgolettato della dirigente amministrativa). Le conseguenze di tutto ciò sono, da un lato, il collassamento generale delle prestazioni di cura e, dall'altro, il caricamento della manovra di tamponamento sulle “prime linee” di quanto resta del (cosiddetto) Sistema Sanitario Nazionale, vale a dire sulla medicina generalista praticata dai medici di base. Figura nei confronti della quale i reggitori regionali hanno fatto di tutto per frustrare e disincentivare. 

Alla canna del gas e/o in un vicolo cieco? 

Tale è la definizione più acconcia per definire la percezione e la consapevolezza dello stato della sanità lombarda ed in particolare di quella territoriale, che ci interessa più da vicino. 

Con il livello prestazionale rivelato ancor prima dello scoppio pandemico e in coincidenza con esso l'establishment politico istituzionale della Regione “locomotiva d'Italia” si sarebbe dovuto, seguendo le procedure societarie, presentare da tempo “i libri in Tribunale”. Nel senso che se la nomenklatura centro destrorsa (che da un quarto di secolo tiene in ostaggio la Lombardia) non avesse completamente perso la vergogna, avrebbe dovuto od auto commissariarsi, o gettare la spugna o, consapevole del proprio vuoto pneumatico e preoccupata della situazione, ispirarsi ad un nuovo corso scaturente dall'autocritica e da una nuova stagione di coesione e di trasversalità di contributi. 

In realtà dopo oltre un anno dedicato alla negazione dell'evidenza, rappresentata dalla plastica incapacità della Giunta Regionale di reggere decentemente l'impatto, e ad una puntuale opera di dezinformatsiya, di rassicurazione e di progetti mirabolanti, la sala regia del Pirellone non ha dimostrato nei fatti la minima volontà di orientarsi verso quello che sarebbe un minimo sindacale di responsabilità verso i lombardi. Vale a dire un proponimento basico: una riforma che parli di ospedale diffuso, di assistenza territoriale che torni a prestare attenzione all'utenza, di distrettualizzazione dei servizi, di priorità della medicina preventiva, di inversione della verticalizzazione della gestione politico-istituzionale (tornando alla partnership dei livelli amministrativi comunali, comprensoriali e provinciali). 

Ma su ciò torneremo più ampiamente, per dire fuori dai denti ciò che pensiamo sia sulla bufala del “nuovo ospedale” sia sulle ipotesi di azzonamento delle AST. (E.V.)

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